Battaglie In Sintesi
6 maggio 1848
Figlio di Carlo Emanuele principe di Carignano e di Maria Cristina di Sassonia-Curlandia, ebbe genitori di tendenze apertamente liberali e, educato a Parigi e a Ginevra, fu sottotenente dei dragoni nell'esercito napoleonico. Tornò nel Piemonte nel maggio 1814 e, erede presuntivo al trono, nel 1817 sposò Maria Teresa, figlia del granduca di Toscana Ferdinando III. Ambizioso, profondamente imbevuto di orgoglio dinastico e insieme insofferente dell'uggiosa atmosfera della corte di Vittorio Emanuele I, coltivò l'amicizia di giovani liberali, come Santorre di Santarosa e C. di San Marzano, e fu a conoscenza, e per un momento anche ambiguo fautore, della cospirazione che portò al moto piemontese del marzo 1821. Reggente per l'abdicazione di Vittorio Emanuele I, concesse la costituzione di Spagna (14 marzo), ma, sconfessato dal nuovo sovrano Carlo Felice, ubbidì all'ordine di recarsi a Novara presso le truppe del gen. V. Sallier de La Tour. Confinato in mal celato esilio a Firenze presso la corte del suocero, per riguadagnarsi la considerazione di Carlo Felice, andò a combattere i liberali spagnoli al Trocadero (ag. 1823). Morto Carlo Felice il 27 aprile 1831, Carlo Alaberto salì al trono e, disprezzato dai liberali, si fece paladino dell'assolutismo regio e accarezzò sogni di crociate legittimiste. A tal periodo appartengono la convenzione militare con l'Austria (23 luglio 1831), i feroci processi anticarbonari e antimazziniani del 1833-34, il continuo appoggio ai gesuiti che rese soffocante l'atmosfera culturale e morale del Piemonte di quegli anni, l'aiuto morale e finanziario dato al tentativo legittimista della duchessa di Berry in Francia e al movimento reazionario del Sonderbund. Gelosissimo del suo potere personale, Carlo Alberto lo manteneva contrapponendo il Consiglio di stato (creato il 18 ag. 1831) ai ministri, oppure contrapponendo ministro a ministro (il clericale C. Solaro della Margherita al liberaleggiante E. di Villamarina), e ancora allontanando senza esitazione ministri creduti onnipotenti quali il conte A. della Escarena nel 1835. E le riforme interne, dall'abolizione della costituzione e della feudalità in Sardegna, al codice del 1837 che creò l'unità giuridica degli stati sabaudi, all'abolizione delle barriere economiche interne, ebbero ancora carattere di paternalismo illuminato. La crisi d'Oriente del 1840, modificando i dati fondamentali della politica europea, lo indusse a mutare politica e ad abbracciare un programma antiaustriaco di espansionismo territoriale nella pianura padana. Concesso, dopo ansie, dubbi e tentennamenti, lo statuto (4 marzo 1848), iniziò soltanto il 23 marzo - quando le Cinque giornate di Milano volgevano al termine - la campagna contro l'Austria. Ma, dopo alcune vittorie iniziali, le sconfitte di Custoza e di Milano lo costrinsero all'armistizio Salasco (9 ag. 1848). Accusato da ogni parte di tradimento, d'incapacità militare, di scarso animo, odiato dai Lombardi per la politica di tradizionale annessionismo piemontese perseguita durante la guerra, Carlo Alaberto volle riprendere le ostilità, ma, disfatto a Novara, dovette abdicare (23 marzo 1849). Nacque allora la "leggenda" carloalbertina, che, lasciando nell'ombra l'aperto reazionarismo della prima parte della vita del re e le ambiguità antiche e recenti, fece di Carlo Alberto un paladino del riscatto nazionale e della causa della libertà italiana: leggenda che non mancò di esercitare un influsso sull'opinone pubblica a favore della monarchia sabauda.
Feldmaresciallo austriaco, nato nel castello di Trebnice, in Boemia, il 5 novembre 1766, morto a Milano il 5 gennaio 1858. Entrato diciottenne nella carriera militare, fece le prime armi contro i Turchi, e nel 1793 fu nominato ufficiale d'ordinanza di J. P. Beaulieu, poi di S. v. Wurmser, con i quali fece le campagne d'Italia del 1796 e del 1797. Promosso colonnello, partecipò alla battaglia di Marengo, come aiutante di campo di M. v. Melas, quindi salì presto agli alti gradi militari, poiché nel 1808 era maggior generale e nel 1809 tenente feldmaresciallo, con l'incarico della riorganizzazione interna dell'esercito. Fece le campagne dal 1813 al 1815, in qualità di capo di Stato maggiore del principe K. Ph. Schwarzenberg, comandante in capo degli eserciti alleati, e dal 1816 al 1828 servì in Ungheria agli ordini del governatore, l'arciduca Ferdinando. Aveva deciso di ritirarsi dal servizio attivo, ottenendo, come generale di cavalleria, il comando della fortezza d'Olmütz (Olomouc), quando, scoppiata la rivoluzione dell'Italia centrale (febbraio 1831), fu destinato a sostituire il vecchio generale J. Ph. v. Frimont nel comando dell'esercito che l'Austria aveva concentrato in Lombardia. Promosse i lavori di fortificazione di Verona e attese al miglioramento dell'esercito, prevedendo che la rivoluzione del '31 e i susseguenti moti insurrezionali che agitavano l'Italia costituivano i prodromi di una guerra a breve scadenza. Nel 1836 fu promosso feldmaresciallo. Teneva il governo militare della Lombardia, quando scoppiò la rivoluzione delle Cinque Giornate milanesi, per cui il Radetzky fu costretto ad abbandonare la capitale lombarda e a rifugiarsi entro Verona, dopo di aver messo a ferro e a fuoco i paesi in cui gl'insorti gli contrastavano la ritirata. Dichiarata, da parte del Piemonte, la guerra all'Austria, il Radetzky rimase nel quadrilatero; e mentre l'esercito di Carlo Alberto assediava Peschiera, egli provvide a riorganizzare il suo esercito, per riprendere l'offensiva non appena gli fossero giunti i rinforzi da lui chiesti. Essi giunsero dalla parte del Veneto, dopo aver vinto a Cornuda e alle Castrette le truppe pontificie, e il 22 maggio operarono il congiungimento con le truppe del Radetzky Validamente accresciuto, l'esercito austriaco si concentrò allora a Mantova col proposito di tagliare la strada di Milano all'esercito piemontese, e dopo sanguinosa lotta a Curtatone e a Montanara (29 maggio) contro le truppe dei volontari toscani, si scontrò a Goito con l'esercito piemontese, che riportò una brillante vittoria, impedendo agli Austriaci il passaggio del Mincio. Se non che, il Radetzky, traendo profitto dell'inesplicabile inazione del nemico, piegò su Vicenza, che fu costretta a capitolare, e rinforzato dalle truppe di L. v. Welden, sconfisse a Sommacampagna l'ala destra dell'esercito piemontese comandata da E. de Sonnaz (22-23 luglio), e due giorni dopo batté l'esercito di Carlo Alberto a Custoza, lo costrinse a togliere il blocco a Mantova, quindi lo sconfisse a Volta, obbligandolo alla ritirata su Milano e poi a rivalicare il Ticino. Il Radetzky entrò in Milano il 6 agosto e tre giorni dopo concluse l'armistizio detto di Salasco, per cui l'esercito piemontese doveva evacuare da tutto il territorio lombardo. Ripresa la guerra il 16 marzo 1849, dopo otto mesi di armistizio, il Radetzky varcò il Ticino presso Pavia e il 23 marzo riportò una nuova vittoria a Novara; e poiché negò una sospensione d'armi, Carlo Alberto decise di abdicare (24 marzo) in favore del figlio, che fu costretto ad accettare le dure condizioni dei preliminari di pace imposte dal Radetzky Nominato governatore generale del Lombardo-Veneto, il Radetzky amministrò il paese con eccessiva severità, sia nei riguardi degli esuli, sequestrando i beni ai più facoltosi, sia nel reprimere il moto insurrezionale del 6 febbraio 1853, ma specialmente per la crudeltà dimostrata nel perseguitare i patrioti milanesi e per la fredda ferocia durante i processi di Mantova. Fu collocato a riposo il 28 febbraio 1857. Scrisse di argomenti militari (Über den Zweck der Übungslager im Frieden, 1816; Gedanken über Festungen, 1827, ecc.).
Colla battaglia di Pastrengo l'esercito piemontese ha portato la propria ala sinistra fino all'Adige. Ora Carlo Alberto vorrebbe, per mezzo d'una grande azione dimostrativa, ricacciare l'esercito austriaco in Verona, sloggiandolo dalle posizioni antistanti e mostrando la superiorità delle forze piemontesi in campo aperto: sta per aprirsi la Camera subalpina e il re vuole annunziare un nuovo brillante successo; e forse pure vuoi attenuare per questa via il malefico effetto dell'enciclica papale del 29 aprile! Programma massimo poi, l'occupazione di Verona, qualora l'azione possa davvero essere accompagnata da una grande insurrezione della città. L'esercito nemico è diviso in tre parti: una sulla sinistra dell'Adige, fino all'altezza di Pastrengo, la seconda nei villaggi davanti a Verona, la terza nella città. Sembra abbastanza facile superare la linea austriaca davanti alla città, e presentarsi in atto di sfida al Radetzky: Verona è una semplice città murata, fortemente murata, ma non costituisce ancora una piazza vera e propria! Se non che i villaggi fra le due branche della grande ansa dell'Adige, nel cui fondo è la città scaligera, sono stati dagli austriaci rafforzati con grande abilità e sistemati a difesa, così da costituire una formidabile linea avanzata, coi fianchi saldamente appoggiati al fiume. E l'esercito piemontese viene tutto quanto spinto a cuor leggero, senza coordinamento di mosse, con disposizioni tattiche del tutto inadeguate, contro una difesa tenace appoggiata a una infinità d'ostacoli passivi: quella che doveva essere una semplice appariscente dimostrazione offensiva in campo aperto, spinta fin nei pressi di Verona, si muta in una sanguinosa battaglia. Il 3 maggio Carlo Alberto parla al Bava «di qualche segreta intelligenza con Verona, della speranza che gli abitanti possano insorgere» all'apparire delle truppe piemontesi, e della «probabilità che il nemico si risolva ad uscire dalla piazza », e lo invita a preparargli un piano d'operazioni adeguato. I presupposti dell'operazione sono in vero alquanto indeterminati; comunque il Bava, il giorno seguente, fa avere al re un progetto di « ricognizione offensiva » contro Verona. Tn questo piano l'azione dovrebbe esser compiuta dalle divisioni del I Corpo con la divisione di riserva a sostegno. Il Bava suppone che gli austriaci debbano opporre alle sue due divisioni una semplice resistenza rìtardatrice sulla linea avanzata, la cosiddetta linea del « rideau » (cortina), e poi ripiegare sul grosso, che è in Verona; la ricognizione, dopo avere occupato le alture che si stendono tra Chievo, Croce Bianca, San Massimo e avanti Santa Lucia, avrà raggiunto lo scopo, o se vogliamo il programma minimo: ricacciare il nemico dalla linea d'osservazione sì da permettere d'esaminare da vicino l'efficienza delle fortificazioni vere e proprie di Verona. Nel caso, però, che il Radetzky accettasse battaglia, ossia uscisse al contrattacco con tutte le forze, e che i veronesi insorgessero, l'azione avrebbe nuovi sviluppi: la divisione di riserva, ancora intatta, dovrebbe agire come vera riserva, per far fronte ad ogni situazione nuova e sfruttare al massimo le occasioni fortunate.
Il 5 maggio, alle quindici, il Bava è convocato a Sommacampagna, sede del Quartier Generale, e sente senz'altro leggere dal generale Franzini l'ordine d'operazione, addirittura per la mattina dopo. Il piano, nella revisione del Franzini approvata dal re, ha subito alcune modificazioni radicali; si tratta sempre di « ricognizione armata » sotto la direzione del Bava, collo scopo di «presentare battaglia alle forze nemiche». Parteciperà all'azione, oltre le 3 divisioni ricordate, anche la 3a divisione del II Corpo, dunque non 3, ma 4 delle 5 divisioni dell'esercito. Innovazione in verità assai opportuna. Ma le successive varianti dicono che, conquistata la linea d'osservazione, si dovrà curare che le truppe non si spingano troppo avanti; quindi prescrivono che « sulle alture di Croce Bianca, San Massimo e Santa Lucia, quando sìeno occupate, avrà termine il movimento in avanti» e aggiungono anche: « allorché si darà principio al movimento di ritorno ecc. ». Insomma, non si parla più di ulteriori sviluppi e di possibili fortunate circostanze: lo scopo si riduce a una ricognizione armata per offrire battaglia al nemico, nella convinzione che la linea d'osservazione sarà superata senza troppa difficoltà, ma colla chiara previsione che il nemico non accetterà battaglia e che Verona non insorgerà; un'azione dunque intrapresa affrettatamente nella speranza di conseguire senza troppa fatica un momentaneo illusorio successo, colla passeggera conquista della linea d'osservazione austrìaca davanti a Verona e la vana sfida a un nemico rintanatosi entro le mura della fortezza. Il Bava chiede invano che l'azione sia ritardata d'un giorno per orientare meglio i comandanti e assicurare il rancio alle truppe prima dell'inizio dei movimenti. Si tratta tuttavia pur sempre d'una forte ricognizione armata con 4 divisioni e 70 cannoni contro Verona, per presentare battaglia al nemico. Le divisioni muovono a semicerchio contro una linea pure leggermente a semicerchio: quelle ai lati avranno un maggior percorso da compiere. Per evitare quindi che l'azione manchi di sincronismo è prescritta la fermata, sopra una linea di sosta da uno a due chilometri dalle posizioni nemiche, della durata d'un paio d'ore. Alle sette le truppe muoveranno dai loro alloggiamenti, dalle nove in poi saranno sulla linea di sosta, alle undici si inizierà l'attacco: esso dovrebbe puntare su San Massimo e poi gradatamente estendersi a sinistra verso Croce Bianca e a destra verso Santa Lucia; preso quest'ultimo villaggio, la posizione austriaca di Tomba dovrebbe cadere per manovra. Ma l'attacco principale, sia nel piano Bava sia nella revisione Franzini, è contro San Massimo: contro di esso dovrà muovere l'intera la divisione, rincalzata dalla divisione di riserva.
Gli austriaci hanno 5 battaglioni del I Corpo fra Tomba e Santa Lucia, e 7 battaglioni fra San Massimo, Croce Bianca e Chievo; di questi 12 battaglioni, 9 sono in prima linea e 3 di rincalzo o riserva; altri 7 battaglioni presidiano la sinistra dell'Adige fino a Ponton, e 12 battaglioni si trovano in Verona. Indubbiamente la linea del «rideau» non è molto presidiata e da ciò forse l'illusione dell'alto Comando piemontese di non trovarvi una resistenza ad oltranza. Sebbene appoggi le due ali al fiume (a Chievo e a Tombetta), essa presenta due gravi difetti: è troppo ampia, cosicché le forze della difesa devono concentrarsi nei capisaldi, e le forze di rincalzo e in riserva sono troppo scarse; non ha una seconda linea né sbarramenti trasversali che permettano la difesa a compartimenti stagni. Ad onta di ciò, la linea poteva considerarsi pur sempre fortissima: dai capisaldi le artiglierie battevano d'infilata le strade e le cortine, cosicché gli elementi della difesa erano quasi sempre in grado d'appoggiarsi a vicenda. Per di più il terreno, tutto coperto d'alberi e di filari di viti, ostacolava moltissimo i movimenti; frequenti linee di sassi ammonticchiati (marogne), parallele alla fronte difensiva avversaria, costituivano un altro ostacolo per gli assalitori, obbligati a scoprirsi interamente nello scavalcarle. Inoltre l'esercito austriaco, se non schierava in prima linea che 9 battaglioni, tutti però con effettivi di 1000, 1100 e anche 1200 uomini, mentre quelli piemontesi erano ancora sugli 800 uomini, allineava ben 42 pezzi d'artiglieria magnificamente disposti, e ne aveva altri 18 a immediato rincalzo: in complesso 5 cannoni a sostegno d'ogni battaglione, mentre i piemontesi ne avevano poco più di uno e destinato spesso o a non trovare impiego efficiente in quel terreno infame o a dover combattere in condizione dì netta inferiorità sulle strade d'accesso ai villaggi. La linea austriaca, però, aveva un punto di minore solidità alla sua sinistra, dove gli ostacoli naturali erano meno forti. Ma né il piano del Bava, né quello riveduto dal Franzìni contemplavano un'azione risolutiva da questo lato, collo scopo di prendere di rovescio tutta la cortina austriaca: l'attacco principale era contro San Massimo, lungo le due vie convergenti da Sona e da Sommacampagna, e da Sommacampagna per Caselle. Per di più, nessuna adeguata esplorazione del terreno d'attacco era stata compiuta, sebbene le truppe fossero sulle posizioni fronteggianti da oltre una settimana. Ad onta delle disposizioni per l'arresto iniziale sulla linea di sosta, i movimenti delle varie divisioni e brigate mancarono di sincronismo; per di piò, l'ordine d'operazione, affrettatamente preparato dal Franzini, era un esempio di poca chiarezza. L'attacco principale contro San Massimo era affidato alla la divisione del I Corpo, rincalzata dalla divisione di riserva; in testa la brigata di sinistra, la Regina, che fungeva anche da avanguardia, preceduta dalle due compagnie bersaglieri del I Corpo, e da uno squadrone di cavalleria. Queste truppe avanzate, spintesi oltre la linea di sosta, sono subito fatte segno a violento fuoco nemico e retrocedono, mirando a proteggere lo spiegamento del reggimento di testa della Regina, il 9°, sulla linea dì sosta, mentre continua il fuoco delle opposte artiglierie. Il reggimento si è spiegato coi suoi 3 battaglioni affiancati e attende lo spiegamento dell'altro reggimento, il 10°, ancora indietro di un chilometro, quando due aiutanti di campo, mandati successivamente dal Bava e dal Franzini, raccomandano vivamente di affrettare il collegamento a destra con l'altra brigata della divisione, l'Aosta, che già si trova gravemente impegnata davanti a Santa Lucìa: il 10° reggimento viene senz'altro fatto piegare a destra alla ricerca del collegamento, e poco dopo lo segue il 9°, avviandosi pure a destra verso Santa Lucia. La brigata procede con estrema difficoltà fra le marogne, i fossati, i filari di gelsi intrecciati di viti, e giunge solo a mezzogiorno al Fenilone, punto di riferimento della linea di sosta presso Santa Lucia. La brigata di destra della divisione doveva da Sommacampagna procedere su San Massimo; ma questa strada presso Caselle si biforcava: a sinistra continuava verso San Massimo, a destra portava a Santa Lucia. Il Bava era con la brigata e, a quanto sembra, proprio lui la fece piegare a destra, verso Santa Lucia. Certo l'ordine era poco chiaro e addirittura contraddittorìo in due perìodi successivi, perché prima diceva che l'Aosta avrebbe dovuto, raggiunta la linea dì sosta, spiegarsi a destra fino al Fenilone, e poi prescriveva che tutto « il centro della linea », ossìa la brigata Regina e la brigata Aosta, avrebbero dovuto assalire San Massimo. Si potrebbe tuttavia sostenere che l'Aosta doveva avere una funzione di collegamento fra le truppe impegnate a San Massimo e quelle contro Santa Lucìa. Comunque il Bava finì col trasferire contro Santa Lucia l'attacco principale e tutta la la divisione finì con essere chiamata a sostegno della 2a, anzi a precederla nell'azione alla destra.
La brigata Aosta si è dispiegata sulla linea di sosta al Fenilone, a 700 metri dalle posizioni nemiche, ed è subito fatta segno a un violento fuoco nemico. Sopraggiunge il re col generale Franzini: anche la brigata Guardie della divisione di riserva, che veniva dietro all'Aosta, visto che questa al bivio famoso aveva deviato verso Santa Lucia, l'ha seguita; ormai la battaglia gravita decisamente verso Santa Lucia. La brigata Aosta dovrebbe rimanere fino alle undici, ossia almeno un'ora, in attesa; ma la linea di sosta è molto, troppo a ridosso alla linea nemica, tanto più che questa si è ormai rivelata non una semplice linea d'osservazione, ma una linea di resistenza ad oltranza. Per di più, il re continua a rimanere impassibile in posizione avanzatissima, tra il Fenilone e Santa Lucia; e allora il Bava decide d'attaccare risolutamente il villaggio. Il Bava dunque non solo ha deviato a destra, ma, fatto più grave, non si è fermato sulla linea di sosta e senz'altro ha attaccato senza sapere se i collegamenti a sinistra e a destra esistevano. La brigata Aosta avanza su due linee con 3 battaglioni affiancati avanti e 3 dietro, perfettamente allineata, per forse mezzo chilometro. A circa duecento metri dalle posizioni nemiche il fuoco di fucileria si fa intenso, e allora, come in piazza d'armi, i 3 battaglioni di prima schiera si spiegano in lìnea, in perfetto ordine; quindi la lìnea riprende ad avanzare compatta su tre righe; poscia si ferma e inizia i regolari fuochi di fila contro il nemico, annidato nelle posizioni ben preparate a difesa: il muro del cimitero appare, su tre lati, tutto intagliato da feritoie. Questa strana, inuguale lotta fra soldati allo scoperto e soldati dietro feritoie si prolunga senza risultati. Anche il fuoco degli 8 pezzi da campagna piemontesi si rivela insufficiente, controbattuto com'è da 6 pezzi assai meglio piazzati. Questa strana lotta dura un'ora circa, dalle dieci alle undici. Tanto il Franzinì che il Bava si sono affrettati ad ordinare, come si è visto, alla brigata Regina di piegare a destra, ma essa tarda a giungere; e neppure dall'altro lato si vede giungere la 2a divisione. Verso le undici, però, giunge la brigata Guardie della divisione di riserva. Viene tosto schierata in prima linea, a sinìstra dell'Aosta, in modo da sostenere l'attacco in forma avvolgente verso la cortina Santa Lucia - San Massimo. Il Bava conduce in persona due battaglioni delle Guardie e riesce a occupare la Pellegrina sulla cortina, cosicché Santa Lucia viene minacciata d'aggiramento. Ma non si tratta di uno sfondamento predisposto della cortina fra i due capìsaldi e il successo rimane limitato. Sul mezzogiorno cominciano a giungere da un lato i primi elementi della Regina, e dall'altro, con oltre un'ora di ritardo, i primi elementi della 2a divisione, rappresentati dell'11° reggimento Casale. Il comandante della brigata, l'intrepido generale Passalacqua, si dispone ad attaccare di fronte e dall'altro fianco il villaggio di Santa Lucia. Fra mezzogiorno e mezzo e l'una si sferra l'attacco generale, concentrico, mentre già si delinea l'effetto della minaccia alle spalle dal lato della Pellegrina: Guardie, Aosta e Casale avanzano ormai irresistìbili. Cade l'intrepido comandante del 5° fanteria Aosta, colonnello Caccia; ma i valorosi valdostani del II battaglione del 6° reggimento penetrano alla baionetta, attraverso le brecce create dall'artiglieria, nel terribile recinto del cimitero, cacciandone in furiosa lotta gli Jàger austriaci. Dall'altro lato il prode Passalacqua, destinato a cadere eroicamente l'anno dopo a Novara, insofferente d'indugi guida il fior fiore dell'11° fanteria alla conquista della Colombara, e di là volge tosto contro Santa Lucia e vi penetra assieme ai valorosi delle Guardie e dell'Aosta. L'accanita lotta, durata tre ore, dalle dieci alle tredici, ha finalmente termine: il nemico è costretto ad abbandonare le sue formidabili posizioni, ripiegando senz'altro sopra Verona; i 2 battaglioni austriaci d'estrema sinistra ripiegano subito anch'essi per timore d'essere tagliati fuori.
Sono le tredici: sboccando da Santa Lucia le truppe hanno davanti a sé Verona, e si vanno schierando lungo il ciglio di fronte alla città. Il re a cavallo, in mezzo al suo Stato Maggiore, scruta ansiosamente col cannocchiale in attesa d'un qualsiasi indizio di sollevazione. Ormai qui sono venute concentrandosi le truppe della la divisione e della divisione di riserva, nonché la brigata Casale della 2a divisione, e sta per sopraggiungere l'altra brigata, la Acqui; e nella zona sono pure 4 dei 6 reggimenti di cavalleria. L'azione ha finito col gravitare specialmente da questa parte, cosi come avrebbe dovuto fin dall'inizio essere impostata; 35 battaglioni, di cui i due terzi si può dire ancora non impegnati, con 24 squadroni di cavalleria e 40 cannoni, si trovano qui ammassati; e il Radetzky non ha vere riserve, salvo due battaglioni presso Chievo e un battaglione ripiegato dall'estrema sinistra, senza essere stato di fatto impegnato. I 12 battaglioni in Verona devono mantenere l'ordine nella città e sono i meno efficienti. Il Radetzky non ha una seconda linea, la prima minaccia d'esser presa di rovescio e non ci sono compartimenti stagni; e l'esercito piemontese alle spalle della linea del «rideau» significherebbe l'immancabile forzamento dell'Adige a Chievo, l'esercito austriaco privo della sua grande linea dì comunicazione col Trentino, addossato in Verona, con una settimana dì viveri; obbligato insomma a cercare la ritirata dal lato di Vicenza per la val d'Agno o la vai Leogra; o a cercare di ricongiungersi col Nugent, che ha appena occupato Belluno e deve aprirsi il passo per le strette del Piave o del Brenta. Ma i piemontesi sostano e passa così una buona ora; dopo le due giunge la non lieta notizia che alla sinistra l'attacco contro Croce Bianca e Chievo, sferrato dalla 3a divisione del II Corpo è fallito. Anche qui la brigata Savoia si è trovata a combattere allo scoperto e in formazioni piuttosto dense contro il nemico che faceva fuoco al sicuro dai muri intagliati di feritoie. E due battaglioni della brigata composta (16° fanteria e battaglione parmense), che procedevano a colonne affiancate, hanno visto all'improvviso smascherarsi a non più di duecento metri una batteria austriaca che ha fatto fuoco a mitraglia sulle fitte formazioni. La compagnia dì testa di uno dei due battaglioni ha avuto di colpo alla prima scarica 33 morti! La divisione si trovava per di più col fianco destro scoperto, perché le truppe contro San Massimo avevano deviato verso Santa Lucia. Anche qui nessuna esplorazione precedente, nessun vero servizio di Stato Maggiore, nessun vero servizio d'ambulanze. Pure gli austriaci non hanno contrattaccato. La non lieta notizia induce Carlo Alberto a ordinare il ripiegamento; lo scopo della «ricognizione armata» sembra raggiunto; d'altra parte né il Radetzky è uscito da Verona a ordinata battaglia, né la popolazione della città è insorta. Fra le due e mezzo e le tre, le truppe si dispongono a ripiegare, e l'operazione fuori Santa Lucia sarà protetta dalla brigata Cuneo, della divisione di riserva, e a destra dalla brigata Acqui della 2a divisione. E proprio ora si ha un energico ritorno offensivo austriaco. Esso è sferrato dai 5 battaglioni meno provati delle truppe respinte da Santa Lucia e da Tomba, rinforzati da 2 battaglioni di fanteria, con una batteria e uno squadrone mandati da Verona. L'attacco austriaco viene energicamente respinto da elementi delle brigate Cuneo ed Acqui; solo alla destra l'azione nemica sul fianco provoca un certo scompiglio, di cui il nemico però non si accorge. Il Radetzky pone a disposizione delle truppe nuovamente respinte altri 2 battaglioni e ordina che l'attacco, sempre con azione frontale e avvolgente, sia subito rinnovato. Ma questa volta gli austriaci, giunti alle prime case di Santa Lucia, le trovano sgombre e possono constatare che dappertutto la posizione è stata abbandonata: si vedevano sull'orlo della rovina e ora s'accorgono d'essere i vincitori. Alle sei del pomeriggio la battaglia, iniziatasi verso le nove del mattino presso San Massimo, può dirsi terminata; gli austriaci possono gloriarsi d'aver respinto in aspra lotta il soverchiante nemico: non hanno avuto in tutto che 72 morti, 190 feriti e 87 prigionieri, mentre le perdite degli assalitori sono state di 110 morti e ben 776 feriti; così da rappresentare la giornata più sanguinosa dell'intera campagna.
Gravi furono le conseguenze di questa battaglia. Nell'insieme le truppe piemontesi mostrarono una disciplina e uno slancio veramente ammirevoli; il capitano svìzzero-francese Le Masson, critico non sospetto, ebbe a scrivere: «Non si potrebbe troppo lodare l'estrema bravura dei Corpi che seppero trionfare a Santa Lucia degl'immensi mezzi di difesa loro opposti; questa bravura stupì gli austriaci, e l'impressione che ricevettero non fu inutile in seguito ai piemontesi». Ma certo il piano della battaglia era assai infelice, la direzione manchevole; e soprattutto era mancato in modo ben più grave che a Pastrengo lo sfruttamento del successo. Era avvenuto che dopo quasi un mese di sosta l'esercito si fosse mosso, si fosse fatto strada fino all'Adige, avesse alla fine attaccato e battuto il nemico, e fosse stato sul punto di infliggergli un colpo mortale. Si fermava per colpa unicamente dei suoi capi; e d'ora in avanti il suo atteggiamento sarebbe stato di costante attesa, volto solamente a parare i colpi dell'avversario: l'iniziativa, tenuta per nove giorni, dal 28 aprile al 6 maggio, sarebbe d'ora in avanti passata agli austriaci, che, battuti e prossimi alla rotta definitiva, si sarebbero inorgogliti e ritenuti vincitori. E in verità, sebbene la difesa austriaca fosse stata rigidamente passiva, salvo all'ultimo e tardivamente, l'esercito nemico appariva ormai guarito dalla crisi di scoramento e di parziale indisciplina dell'ultima decade di marzo; purtroppo proprio dei battaglioni lombardo-Veneti si erano segnalati nell'ostinata difesa! E ciò mentre il Comando piemontese, così metodico e prudente e povero di capacità creativa nel dirìgere e guidare Fazione nei suoi sviluppi e nell'afTrontare situazioni nuove ed improvvise, sciupava il prezioso fattore della fiducia e dello slancio onde i combattenti erano stati animati. Dopo Santa Lucia, quasi un altro mese di stasi. L'unica vera operazione, quella dell'assedio attorno a Peschiera: una brigata blocca la piazza e tutto il resto dell'esercito, posto a semicerchio dal Carda a Villafranca, protegge e garantisce questo blocco; la piccola divisione toscana fronteggia Mantova, rafforzata da due esili battaglioni napoletani, uno regolare e uno di volontari; un altro esile battaglione regolare napoletano è di collegamento a Coito. Ma il collegamento diretto col Veneto, quel collegamento che sarebbe più che mai necessario ora che il corpo del Nugent avaria per la pianura, vìen meno; il presidio di Mantova, ributtato bravamente dai toscani e napoletani il 13 maggio, riesce, di concerto con quello di Legnago, a respingere i volontari modenesi e romagnoli, nella zona fra le due fortezze. Importerebbe in queste condizioni soprattutto respingere i rinforzi del Nugent, dare manforte alle due inuguali divisioni pontifice (una regolare e una di volontari), raccogliere e riordinare i volontari veneti e dell'Italia centrale, prepararsi ad agire di concerto col corpo d'armata napoletano che dovrebbe per Bologna e Ferrara portarsi a Padova. E si discute infatti dì mandare nel Veneto almeno una brigata con cavalleria e artiglieria, la quale possa essere il fulcro non solo d'una valida resistenza al Nugent, ma d'una energica ripresa che dia alla guerra nuovi sviluppi e non la limiti alla conquista metodica d'una piazza dietro l'altra; e ciò dato che il nemico sia disposto a lasciarsi assediare e a vedere le sue fortezze cadere successivamente, senza reagire affatto! Ma il progetto è subito scartato. Si potrebbe pensare che l'esercito posto così per tempo in una difensiva strategica, voglia far tesoro dell'esperienza di Santa Lucia e sistemare a difesa il terreno, sia nell'arco di cerchio da Cisano sul Carda a Villafranca, sia davanti a Mantova, con una serie di capisaldi, così come gli hanno rudemente insegnato gli austriaci. Ma non si fa quasi nulla; che lo scarso materiale e personale specializzato sono assorbiti nelle operazioni contro Peschiera. E intanto il generale Nugent continua ad avanzare.
Tratto da: "Storia militare del Risorgimento", Piero Pieri, Torino, Einaudi, 1962